giovedì 15 novembre 2012

genitori no alpitour (2)




Ovviamente non può andare tutto liscio e a causa d una piccola macchia di sangue il panico assale prima me e poi, per osmosi, mio marito. Forse non ci sei più. Forse siamo stati così maledettamente idioti da non considerare che potevamo farti del male. Siamo distanti ore da qualunque ospedale o ambulatorio medico e, posto che ce ne fosse uno, onestamente non so se mi fiderei di un medico birmano e delle sue competenze ginecologiche.
Il giorno seguente, mentre attraversiamo il lago, mi torna in mente un libro di Amy Tan  ambientato proprio sul Lago Inle. È anche per merito o per colpa di quel libro che sono qui. In esso si raccontava la storia di un gruppo di sprovveduti turisti sequestrati da una tribù locale per ottenere un lauto riscatto. Ci manca solo il sequestro poi abbiamo fatto tombola. Sono così triste e incazzata che se un manipolo di birmani armati fino ai denti si presentasse per rapirci li farei fuori tutti io. Come una Tartaruga Ninja. Che ci faccio io su ʼsto cavolo di lago quando la Natura mi aveva affidato un piccolo ma fondamentale tassello del più alto dei compiti, la prosecuzione della specie?
Nei giorni seguenti tutto tace. Il ciclo non arriva. Ci sei ancora microfagiolo? Oppure no, e il mio corpo si sta riassestando per ripartire da zero?
Siamo tristi, ma non possiamo fare nulla. Visto che ormai siamo in ballo col viaggio, balliamo. Attraversiamo mercati meravigliosi e variopinti, ma talmente maleodoranti e fetenti da farmi supporre che il mio sistema immunitario sia allertato e vigile come una sentinella pakistana al confine con l’India. Affrontiamo scalinate chilometriche. Suoniamo campane votive di ogni misura e materiale. Percorriamo distese sconfinate di risaie. Contempliamo decine e decine di Buddha: distesi, seduti, in piedi, con occhi aperti e occhi chiusi, formato bonsai o formato grattacielo, di legno, di muratura, d’oro, di giada. Ci spostiamo su qualunque genere di mezzo: pulmino, auto, jeep, imbarcazioni, tuc-tuc, aerei piccoli e grandi. Io, per ogni mezzo su cui salgo, compreso l’aereo, supplico mio marito: «Puoi chiedergli di andare piano?»
Eh sì, perché sono i tragitti il momento peggiore, quando a ogni curva si rischia una buca imprevista che ti fa sobbalzare sul sedile dell’auto come una pallina in un flipper. Parliamo al tizio che ci fa da guida. Gli spieghiamo la situazione con toni accorati. Riusciamo a commuovere lui e il guidatore. Hanno a cuore la nostra situazione, specialmente per la lauta mancia che allunghiamo loro. Tutti pagano per correre. Noi paghiamo per andare lenti. Lentissimi. Niente buche, per carità!

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