sabato 17 novembre 2012

un cuscino di Linus


Non parliamo del cibo. In quelle settimane mi nutro cercando di scegliere alimenti che possano almeno approssimativamente essere ricondotti al loro aspetto originario e che siano stati verosimilmente cotti per un periodo di tempo sufficiente. Ma sull’igiene mettiamoci pure una pietra sopra. In un posto come questo è una partita persa in partenza. Spero soltanto di evitare l’intossicazione alimentare acuta. Per il resto conto sul mio stomaco, solitamente in grado di neutralizzare qualunque cosa, compreso il plutonio.
Ma tu, nano, ci sei o non ci sei? Quando per strada adocchio una donna incinta sono confortata: è la prova che anche in Birmania si può diventare mamme. Addirittura, loro, le gravide birmane, si spostano su trabiccoli pericolanti e motociclette che cadono a pezzi. E di bambini ce ne sono parecchi in giro. Allora anch’io posso sperare. In fondo il ciclo non arriva, altre perdite non se ne sono viste.
Giunti a Mandalay sono sull’orlo di una crisi di nervi. Intimo alla guida di portarci da un tappezziere locale per comprare un cuscino ben imbottito. Lo voglio grande e robusto. So che non può scongiurare il peggio, ma in questo momento è la mia coperta di Linus. Ne ho bisogno. Voglio un cuscino tra me e il sedile dell’auto, tra me e le buche, tra me e il mondo esterno. La guida ci guarda con aria attonita: ha accompagnato centinaia di turisti prima d’ora, alcuni veramente assatanati in fatto di shopping, ha procurato loro qualunque genere di souvenir (cappellini, magliette, ombrellini di bambù, cartoline, orecchini, statuette, batik, ciondoli di giada, arazzi, costumi tipici, ventagli intagliati, scatole laccate, servizi di tazzine e quanto di meglio si possa desiderare in fatto di artigianato e paccottiglia orientale a buon mercato), ma un gigantesco cuscino imbottito mai.
Ci dirigiamo con la macchina in una delle zone meno popolate e meno raccomandabili della città: al termine di una strada semideserta c’è una casupola di lamiera. La nostra macchina si ferma proprio qui. È un negozio stipato di materassi, cuscini, cuscinetti, tende. Seduti sul marciapiede, i proprietari stanno pasteggiando con riso bianco e un intingolo di natura indefinibile. Due turisti: visione incredibile, a dire dalle loro espressioni sbigottite. Hanno un momento di spaesamento, ma è questione di un attimo. Lo spirito commerciale ritorna rapidamente ad animarli. Si alzano in fretta, accendono le luci del negozio e simulano un’accoglienza degna dei magazzini Lafayette.
Entro con aria marziale. Io spiego a mio marito, mio marito traduce in inglese per la guida, la guida traduce in birmano per il commerciante. Mi faccio portare davanti a una pila di cuscini. Li tasto con perizia. Uno per uno. Eccolo. Terribile: rosso a fiori rosa. Ma la consistenza e la dimensione sono eccellenti per il delicatissimo compito cui deve adempiere. Paghiamo. Suppongo che con la cifra che ci hanno chiesto per il cuscino abbiano finito di pagare il mutuo del negozio. Mio marito, che per indole in queste situazioni contratta con la tenacia di un arabo in un suk, stavolta paga senza fiatare. Il mio sguardo da apache non tollera dilazioni. Posiziono il cuscino sul sedile dell’auto e si rientra in albergo. Da quel momento il cuscino diventa il mio compagno inseparabile.
A ogni nuovo tragitto, a ogni nuova tappa, lui è con me. Entro in ciascun albergo portandolo gelosamente sotto il braccio, seguita dallo sguardo del concierge che cerca malamente di dissimulare il proprio stupore di fronte al mio insolito bagaglio. «Schiodami di dosso quegli occhiettini a mandorla, mio caro. Tu non sai che prezioso carico dobbiamo proteggere.» Da Mandalay fino a Milano, il cuscino rosso è con me, sotto di me.