Non parliamo del cibo. In quelle settimane mi
nutro cercando di scegliere alimenti che possano almeno approssimativamente
essere ricondotti al loro aspetto originario e che siano stati verosimilmente
cotti per un periodo di tempo sufficiente. Ma sull’igiene mettiamoci pure una
pietra sopra. In un posto come questo è una partita persa in partenza. Spero
soltanto di evitare l’intossicazione alimentare acuta. Per il resto conto sul
mio stomaco, solitamente in grado di neutralizzare qualunque cosa, compreso il
plutonio.
Ma tu, nano, ci sei o non ci sei? Quando per
strada adocchio una donna incinta sono confortata: è la prova che anche in Birmania
si può diventare mamme. Addirittura, loro, le gravide birmane, si spostano su
trabiccoli pericolanti e motociclette che cadono a pezzi. E di bambini ce ne
sono parecchi in giro. Allora anch’io posso sperare. In fondo il ciclo non
arriva, altre perdite non se ne sono viste.
Giunti a Mandalay sono sull’orlo di una crisi di
nervi. Intimo alla guida di portarci da un tappezziere locale per comprare un
cuscino ben imbottito. Lo voglio grande e robusto. So che non può scongiurare
il peggio, ma in questo momento è la mia coperta di Linus. Ne ho bisogno. Voglio
un cuscino tra me e il sedile dell’auto, tra me e le buche, tra me e il mondo
esterno. La guida ci guarda con aria attonita: ha accompagnato centinaia di
turisti prima d’ora, alcuni veramente assatanati in fatto di shopping, ha
procurato loro qualunque genere di souvenir (cappellini, magliette, ombrellini
di bambù, cartoline, orecchini, statuette, batik, ciondoli di giada, arazzi,
costumi tipici, ventagli intagliati, scatole laccate, servizi di tazzine e
quanto di meglio si possa desiderare in fatto di artigianato e paccottiglia
orientale a buon mercato), ma un gigantesco cuscino imbottito mai.
Ci dirigiamo con la macchina in una delle zone
meno popolate e meno raccomandabili della città: al termine di una strada semideserta
c’è una casupola di lamiera. La nostra macchina si ferma proprio qui. È un
negozio stipato di materassi, cuscini, cuscinetti, tende. Seduti sul
marciapiede, i proprietari stanno pasteggiando con riso bianco e un intingolo
di natura indefinibile. Due turisti: visione incredibile, a dire dalle loro
espressioni sbigottite. Hanno un momento di spaesamento, ma è questione di un
attimo. Lo spirito commerciale ritorna rapidamente ad animarli. Si alzano in
fretta, accendono le luci del negozio e simulano un’accoglienza degna dei
magazzini Lafayette.
Entro con aria marziale. Io spiego a mio marito,
mio marito traduce in inglese per la guida, la guida traduce in birmano per il
commerciante. Mi faccio portare davanti a una pila di cuscini. Li tasto con
perizia. Uno per uno. Eccolo. Terribile: rosso a fiori rosa. Ma la consistenza
e la dimensione sono eccellenti per il delicatissimo compito cui deve adempiere.
Paghiamo. Suppongo che con la cifra che ci hanno chiesto per il cuscino abbiano
finito di pagare il mutuo del negozio. Mio marito, che per indole in queste
situazioni contratta con la tenacia di un arabo in un suk, stavolta paga
senza fiatare. Il mio sguardo da apache non tollera dilazioni. Posiziono
il cuscino sul sedile dell’auto e si rientra in albergo. Da quel momento il
cuscino diventa il mio compagno inseparabile.
A ogni nuovo tragitto, a ogni nuova tappa, lui è
con me. Entro in ciascun albergo portandolo gelosamente sotto il braccio, seguita
dallo sguardo del concierge che cerca malamente di dissimulare il
proprio stupore di fronte al mio insolito bagaglio. «Schiodami di dosso quegli
occhiettini a mandorla, mio caro. Tu non sai che prezioso carico dobbiamo
proteggere.» Da Mandalay fino a Milano, il cuscino rosso è con me, sotto di me.