Stamattina,
mentre bevevo il thè, ho gettato l’occhio sul mio terrazzo.
Nulla
sarà più come prima.
Se
un tempo passavo ore ed ore a trastullarmi tra i vasi, potando, concimando,
rinvasando e accudendo con sollecitudine ogni singola piantina, da quando c’è
Giacomo le mie amorevoli cure sono state sostituite dalla precisione
cronometrica di un irrigatore automatico di ultima generazione: due
innaffiature al dì, cinque minuti ciascuna, alle ore 5.00 e alle ore 21.30. Da
aprile a ottobre. E ciò basti.
L’efficiente
marchingegno, messo a dimora da mio marito non senza una certa fatica e un
esagerato numero di tentativi di calibrazione, ha sicuramente avuto il merito
di arginare la catastrofe totale. Buona parte delle mie amiche vegetali è
sopravvissuta a ben due estati milanesi arroventate da un caldo senza
precedenti. Ben venga l’irrigatore e i suoi ugelli regolabili. Ma
sempre di marchingegno trattasi. E dunque a lui sfugge la corsa sfrenata del
convolvolo, che rischia di soffocare crudelmente la passiflora. Così come non
coglie il dramma della salvia, divorata da una tenace coppia di piccoli bruchi,
che solo il mio spirito animalista mi ha impedito di eliminare. Ed è sordo al
grido d’aiuto della magnolia soulangeana, che oltre all’innaffiatura necessiterebbe di abbondanti irrigazioni su foglie e germogli, riarsi dalla
calura agostana.
E
ora, nel novembre inoltrato e stranamente tiepido di quest’anno, la mia
mancanza di attenzioni non trova scusanti: il panorama del terrazzo è abbastanza
desolante.
Ma
la mia attenzione è captata in particolare da una piantina grassa. Devo a
questo punto, con un certo imbarazzo, confessare un piccolo reato.
La
scorsa estate, durante una vacanza in Grecia, sono stata catturata dal fascino
delle numerosissime piante succulente dell’isola. Un insieme di specie a me del
tutto sconosciute.
Le
ho osservate, ammirate, fotografate. Ma non ho resistito. E ho compiuto un furto. Solo qualche getto, si intende. Una piantina deliziosa, nella
sua semplicità. Aeonium Tabuliforme,
una succulenta tipica delle coste del Mediterraneo. Un piccolo fusto dritto e
svettante, molto ramificato negli esemplari adulti, sormontato da rosette di
foglie succulente color porpora. Adorabile. E, soprattutto, sconosciuta ai florovivaisti
nel Nord Italia.
Chi
ama il giardinaggio conosce quell’incoercibile spinta ad appropriarsi di ogni
nuovo e affascinante esemplare. Dunque i piccoli getti, sapientemente protetti
da una scatola, sono giunti con me a Milano e sono stati messi a dimora in un
vasetto di terracotta.
Eccoli
lì, ora, a quattro mesi di distanza: le foglie delle rosette, alla disperata
ricerca del calore e della luce greca, si sono diradate e allungate a
dismisura, e hanno definitivamente perso quell’affascinante color porpora, in
favore di un verdino smorto e opaco.
Una
stessa pianta, in due posti diversi, cresce arrivando a produrre due esemplari
che non sembrano neppure lontanamente imparentati.
Bene.
Potevi lasciarla dov’era, direte voi.
Vero.
Verissimo.
Ma
dalla metamorfosi dell’Aeonium le mie
riflessioni, cullate dal torpore di quella mezzora di colazione solitaria,
prima che si svegli il mio piccolo boss, si sono spostate altrove.
Sui figli.
Se
Giacomo non abitasse qui, con noi come genitori, in una mansarda della zona Est
di Milano, ma si trovasse, per esempio, in una famiglia allargata di qualche
sperduto paese del mondo, come diventerebbe? Cosa ne sarebbe di lui, del suo
carattere, della sua crescita, delle opportunità diverse che potrebbe avere?
Con
i figli alcune scelte diventano dubbi amletici – scuola pubblica o privata?
Medicina omeopatica o allopatica? – mentre su tante altre cose andiamo diretti.
Noi siamo il loro clima, il sole, la pioggia, l’umidità, l’inquinamento. E
questo può far cambiare il colore delle loro foglie, in meglio o in peggio. Sono
per lui il clima migliore? Potrei dargli qualcosa in grado di farlo germogliare
meglio?
Sommersa
da uno schiacciante senso di responsabilità, porto l’Aeonium in casa, sperando che il tepore del riscaldamento domestico
possa almeno parzialmente compensare le mie colpe.